Storia della diagnostica artistica e dell’analisi tecnica
Precisare in termini cronologici il riconoscimento dei metodi di analisi scientifica nell’esame delle opere d’arte non è facile in quanto risulta evidente che per molti secoli vi furono soltanto “tentativi isolati in un primo momento empirici, poi ‘scientifici’, basati sull’analisi chimica e applicati ai materiali e agli oggetti di interesse prevalentemente archeologico”[1].

Andrea del Sarto- Luce visibile
A dimostrazione di quello che possiamo definire “primo empirismo” applicato allo studio dell’opera d’arte risulta rilevante l’esempio ricordatoci nel 1732 dal Tassi[2]. Si dice infatti che il pittore bergamasco Vittore Ghislandi, conosciuto anche come Fra’ Galgario, possedendo un dipinto tizianesco avesse compiuto dei “tentativi” che Paolo Bensi non esita a definire come “esami stratigrafici” giacché con “un coltellino aveva indagato la struttura degli strati pittorici”[3].
Nel XVIII secolo si inizia a porre l’attenzione sui meriti delle analisi che prevedevano l’utilizzazione di strumenti ottici e dal 1780 il fisico Jacques Alexandre Cèsar Charles, noto anche come precursore del principio di Gay Lussac sulla dilatazione termica dei gas, applica tali teorie sulle tavole conservate al museo del Louvre[4].

Andrea del sarto – Fotografia all’infrarosso
Le prime pubblicazioni sull’analisi e l’identificazione del materiale pittorico e del supporto risalgono ai primi anni del XIX secolo, la prima è un documento scritto in Francia da Jean Antoine Chaptal[5] al quale segue poco dopo lo scritto dell’eminente scienziato inglese Sir Humphrey Davy[6], entrambi gli studi si occupavano di pigmenti e inerti su pitture murali ad encausto trovate a Pompei.
Le basi di una collaborazione tra scienziati e storici dell’arte
Ma è soltanto dalla seconda meta del XIX secolo che si iniziano a gettare le basi di una collaborazione tra scienziati e storici dell’arte[7] e che vengono ad aggiungersi alle analisi chimiche i metodi ed i mezzi di natura fisica; ci si dedica a capire meglio i segreti delle tecniche pittoriche degli antichi maestri individuando tutti quei processi di alterazione per assicurare una migliore conservazione delle opere.
Nella seconda metà del XIX secolo la collaborazione fra scienza e arte diviene un fatto compiuto. Dai primi lavori scientifici che hanno trovato ospitalità in alcuni periodici, si è passati a tutta una letteratura specializzata in pubblicazioni sempre più importanti e numerose.[8]
Nei primi anni del Novecento l’inglese Arthur Pillans Laurie, i cui studi chimici sui materiali artistici coprono mezzo secolo, pubblica una serie di articoli e libri sulle ricerche da lui eseguite. Il volume, Pigments and Mediums of the Old Masters[9], pubblicato nel 1914 è da ritenersi il suo maggior contributo agli studi analitici. Si deve qui sottolineare come in questo periodo l’analisi chimica si sia dovuta necessariamente evolvere e perfezionare in un’analisi applicata a sempre più piccole quantità di campioni prelevati dall’opera in esame. Nel 1930 sono stati pubblicati molti brevi studi sull’identificazione microchimica dei pigmenti: l’eccellente monografia dell’olandese A. Martin de Wild, The Scientific Examination of Paintings[10], edita nel 1929, è stata per lungo tempo considerata lo studio più rilevante sulla tecnica dei Maestri Fiamminghi. Altri contributi fondamentali si devono allo scienziato tedesco Alexander Eibner che pubblicò numerosi articoli sulla microchimica nell’esame della pittura in “Mouseion” e “Angewandte Chemie“. A lui dobbiamo inoltre i lavori pioneristici sull’utilizzazione della lampada ad ultravioletti nello studio della fluorescenza dei dipinti antichi[11]. L’utilizzazione di sorgenti ultraviolette nell’indagine delle opere d’arte inizia alla fine degli anni ’20 con la realizzazione, da parte del fisico americano Robert William Wood, di un filtro in vetro a base di ossido di nichel capace di bloccare la radiazione visibile e mantenersi trasparente alla radiazione ultravioletta. Con questo particolare filtro in vetro si ottengono sorgenti di sole radiazioni ultraviolette (dette anche “lampade di Wood” o “sorgenti di luce nera”) che inducono fenomeni di fluorescenza su molte sostanze usate in pittura[12].
E’ importante rilevare come dopo i lavori di Eibner e di altri ricercatori, apparsi intorno al 1930[13], non si trovano per molti anni pubblicazioni in merito a questo importante settore di indagine. Sarà il Laboratorio Centrale di Ricerca per gli Oggetti di Arte e Scienza di Amsterdam con Rene De La Rie a portare avanti gli studi sullo spettro di fluorescenza dei materiali pittorici e delle superfici dipinte i cui risultati sono stati pubblicati nel 1982[14].

Franciabigio – Luce visibile
L’identificazione dei materiali
Precedentemente un allievo di Eibner, H. Hetterich, in “Microchemie“[15], scrisse alcuni importanti saggi sui metodi microchimici per l’identificazione dei pigmenti e dei medium in pittura. Sullo stesso argomento e in quegli stessi anni sia Selim Augusti[16] che Rutherford J. Gettens[17] pubblicarono altri fondamentali saggi.

Franciabigio – Fotografia all’infrarosso
Si deve anche ricordare il progetto per un manuale sull’identificazione dei materiali in pittura che nel 1958 Gettens realizzò con la collaborazione di Joyce Plesters della National Gallery di Londra e la sponsorizzazione dell’International Institute for the Conservation of Historic and Artistic Works. Il manuale sarebbe dovuto servire come strumento di consultazione per chimici, conservatori, restauratori e collezionisti. La vastità del progetto richiese la cooperazione di diversi laboratori, inizialmente lo studio coprì l’analisi di una settantina di pigmenti e inerti, i più comunemente presenti nei dipinti sia antichi che moderni. I dati raccolti per ciascun pigmento comprendevano: composizione chimica, storia del primo periodo di uso e scoperta, distribuzione geografica e frequenza d’uso nell’antichità, metodi di preparazione, proprietà ottiche, proprietà chimiche, test microchimici, diffrazione ai raggi X, curve di spettrofotometria.
Gli studi sull’analisi dei materiali pittorici si interruppero durante la seconda guerra mondiale, e ripresero solo negli anni cinquanta con le ricerche di Paul Coremans[18] e dei suoi colleghi, dell’Istituto Reale del Patrimonio Artistico del Belgio, inerenti a Van Eych e ad altri primitivi fiamminghi.
Nel 1956 Joyce Plesters pubblica il suo notissimo articolo, in “Studies in Conservation“[19], ricco di documenti e tavole esemplificative per il riconoscimento e l’identificazione dei pigmenti prelevati dalla superficie pittorica. Suo merito è stato anche quello di sottolineare come un dipinto rappresenti non una superficie da indagare ma una struttura stratigrafica venendo così a stimolare nuovi metodi di indagine, quali i raggi X e la fotografia ad infrarosso.
L’applicazione dei raggi X all’esame dei dipinti
Nel settore dell’indagine fisica alla fotografia, come mezzo ideale di documentazione, si affiancano i contributi apportati dalle informazioni ottenibili attraverso l’applicazione della radiografia ai raggi X sulle opere pittoriche. Nessuno avrebbe mai sospettato che quando nel 1901 fu assegnato il Nobel a Wilhelm Konrad Rontgen la sua scoperta sarebbe diventata uno “strumento essenziale dell’indagine artistica”.[20] Come molte altre, anche quella dei raggi X fu una scoperta “casuale”. Il fisico Rontgen nel 1895 durante alcuni esperimenti compiuti con tubi catodici osservò che dall’anodo di tali tubi venivano emesse radiazioni di natura misteriosa capaci di attraversare corpi solidi e di impressionare le lastre fotografiche poste dietro di essi. Tali radiazioni, col nome di raggi X, vennero utilizzate nel campo medico per fotografare l’interno del corpo umano. L’importanza del suo impiego in campo artistico la ravvisò lo stesso scopritore dei raggi X, che nel I896 riuscì a intravedere al di sotto di un paesaggio del Settecento un dipinto della scuola di Raffaello[21].
Nello stesso anno, in un articolo redazionale di “Electrical Review“, si legge: “E’ ben probabile che tale applicazione (l’applicazione dei raggi X all’esame dei dipinti) si dimostri preziosa ai mercanti d’arte permettendo loro di sventare delle frodi”[22].
“Non era una previsione errata: al mercante o in genere a chi aveva interesse ad accertare che la qualità di un’opera pittorica o la sua paternità non fossero mentite, gli esami di laboratorio, e prima fra questi la radiografia, furono di grande utilità, e di maggiore utilità lo sarebbero stati se fossero stati correttamente intesi”. L’esame a cui veniva sottoposto un dipinto nell’occasione d’una transazione o in altre simili circostanze era purtroppo, come sottolineano recenti studi, del tutto “occasionale per poter essere serio. E qui non ci si vuole riferire solo né soprattutto all’interesse economico del mercante o del suo cliente. L’interesse di curiosità dei terzi era molto più dannoso. Purtroppo si sono verificati talora dei casi fortunati – il caso dell’esame limitato ad un unico dipinto e che ne rivela la contraffazione o quello dell’esame che all’opposto rivela un Mantegna od almeno un Crivelli sotto una ridipintura sciagurata – che sono entrati subito nella scorta d’aneddoti saporiti con cui, di tanto in tanto, un giornalista infiorerà un articolo di divulgazione, facilmente in un giornale a rotocalco”. Come ripetutamente gli studiosi hanno sottolineato la possibilità di trarre frutto da un’esame isolato ha distratto, per lungo tempo, l’attenzione dall’opportunità di effettuare invece un’analisi sistematica[23], un’analisi ciòè applicata a consistenti gruppi di opere di un determinato autore capace di fornire un vero giudizio comparativo e decisivo per l’attribuzione e la verifica dell’autenticità dei dipinti. Se è vero però che il maggior numero delle pubblicazioni sull’argomento trattava la radiografia in funzione unicamente del restauro e dunque della conservazione, fornendoci i reperti di singoli dipinti, è contemporaneamente altrettanto vero che già, nella seconda e terza decade novecentesca, vi furono anche pubblicazioni specificatamente improntate a sottolineare l’importanza che l’analisi radiografica aveva per una valutazione artistica dell’opera.
Risultò ciòè sempre più evidente come ogni artista possedesse un colpo di pennello personale e questi colpi di pennello, visibili sulla radiografia fossero caratteristici come le impronte digitali in modo da poter dare un giudizio in base a questo loro carattere. La necessità dell’utilizzazione dell’esame radiografico per lo studio di un singolo artista era stata preannunciata, prima degli anni venti, dal fisico tedesco Karl Kùnig che aveva concentrato il suo lavoro sulla comparazione radiografica dei dipinti di Albrecht Durer[24]. L’analisi dell’assorbimento ai raggi X da parte dei diversi pigmenti coinvolse un numero sempre crescente di studiosi, per merito di nuovi contributi apportati da scienziati europei quali Töpler, Heilbronn e Chéron furono impostate le prime metodologie.[25]
L’mportanza della fondazione di un archivio radiografico
Il progetto per la fondazione di un vero e proprio archivio radiografico si deve invece a E. W. Forbes, curatore del Fogg Museum della Harvard University di Cambridge, Massachussets, il quale, negli anni fra il 1920 e il 1925, prospettò la raccolta di lastre radiografiche di tutti i capolavori raccolti in musei del vecchio e nuovo continente. Tale importante programma di ricerca verrà portato avanti da Alan Burroughs che si propone di attuare la collazione radiografica a scopi non solo conservativi ma come un valido strumento supplementare per gli studiosi di storia dell’arte. A lui si deve una buona pubblicazione del 1938[26] ma la documentazione radiografica su cui basa i suoi studi resta troppo limitata per ritenersi esaustiva e per promuovere o sollecitare nuove ricerche.
In Italia furono Mariani[27] e Mancia a difendere l’utilizzazione della radiografia per uno studio sistematico, e non unicamente conservativo, delle opere artistiche, Mancia inoltre sottolineò l’importanza della fondazione di un archivio radiografico nazionale[28].
Il merito di aver, per la prima volta, attuato uno studio storico-artistico basandosi anche su un’ampia documentazione radiografica spetta ad Antonio Morassi, importanti restano le sue annotazioni, del 1942, sull’opera del Giorgione, dove si legge che “alla base di ogni critica d’arte deve stare una completa conoscenza della fisiologia dell’opera che ha da essere aggiudicata (…) i raggi Rontgen hanno offerto, da pochi anni, un notevole contributo alla storia dell’arte”[29].
Da citare sono anche gli studi di Bazin su Corot[30], di Rees Jones su Poussin[31] e la monografia di Wolters[32], oltre a quelli di Hours Miedan su Poussin, Rembrandt e Leonardo, presentati, questi ultimi, a completamento dell’esposizione “Hommage à Léonard de Vinci”[33].
In Italia, a partire dagli anni ’70, vanno ricordati i brillanti studi del radiologo Ludovico Mucchi su Pietro Longhi[34], sui Leonardeschi (1972)[35], su Tiziano[36] (1977, in collaborazione con Precerutti Garberi) e su Giorgione[37] (1978, in collaborazione con Terisio Pignatti). Esemplare resta la sua analisi sulla vasta campionatura dei vedutisti del ‘700 veneto: 216 dipinti minuziosamente studiati e raffrontati nei loro caratteri radiografici “così da penetrare nel segreto più intimo della creazione delle immagini”[38].
La riflettografia all’infrarosso è stata utilizzata nello studio di oggetti d’arte dalla metà degli anni ’60, principalmente da studenti impegnati nella ricerca della pittura primitiva fiamminga. Susseguentemente tale strumento di indagine si è diffuso divenendo parte dell’equipaggiamento tecnico di restauratori, conservatori e storici dell’arte[39].
Nacque, nei primi anni del dopoguerra, in alcune università americane una corrente orientata a togliere ai laboratori di fisica l’esclusività di questo tipo di ricerca.
A partire dagli anni ’60 viene avvertita l’esigenza di affiancare un laboratorio di analisi ai musei e ad altri istituti di restauro. Come notano i due chimici Matteini e Moles, in “quest’ottica di razionalizzazione e di una maggiore consapevolezza degli interventi (…) l’attività di ricerca a carattere scientifico per le pitture su tela e tavola viene a privilegiare gli aspetti conoscitivi delle opere piuttosto che quelli conservativi”[40].
La ricerca di effetti spettacolari
E’ importante notare come, a partire dagli anni settanta, la diagnostica artistica abbia avuto una sorta di accelerazione per la quale non vi era più una mostra né un catalogo privi di documentazione scientifica. E’ importante tuttavia osservare come di fronte alla presentazione delle applicazioni e dei risultati delle tecniche di documentazione scientifica storici dell’arte, conservatori e restauratori potessero rimanere perplessi. La ricerca di effetti spettacolari da offrire durante le varie manifestazioni metteva in luce la carenza di metodologia e di vera collaborazione tra chi eseguiva gli esami e chi invece doveva intervenire materialmente sull’opera o studiarla [41]. Fortunatamente la serietà della ricerca ha saputo correggere il fenomeno della sua teatralizzazione banalizzante come dimostrano le più recenti pubblicazioni dove, appunto, il discorso storico-artistico e quello più prettamente scientifico si articolano e integrano fra loro. Si vedano pertanto, a dimostrazione di questo, i brillanti studi monografici sull’opera del Bellini, Tiziano, Caravaggio, Pietro da Cortona e i quattro maggiori vedutisti veneti ai quali facciamo riferimento in bibliografia.
Manfredi Faldi, La documentazione materiale come supporto e verifica dell’analisi storico-stilistica nelle opere pittoriche, Firenze 2003
Bibliografia
[1]S. Augusti, Les mèthodes d’analyse appliquees aux oeuvres d’art et aux antiquietes, in “Recent advances in conservation“, London Buttherworths, Ed. Thomson 1963, p.20.
[2]Cfr. F. M. Tassi, Vite de’ Pittori, Scultori e Architetti Bergamaschi, Bergamo I793, edizione critica a cura di F. Mazzini, Milano 1979 e lo studio monografico di M. C. Gozzoli, Vittore Ghislandi detto Fra’ Galgario, estratto da I pittori bergamaschi, Il Settecento, I, Bergamo, Bolis 1981.
[3]P. Bensi, La vita del colore, Genova, Neos Edizioni 2000, p. 77.
[4]Cfr.a proposito M. Hours Miedan, Analyse scientifique et Conservation des Peintures, Office du Livre, Fribourg 1976, poi nel Catalogo della Mostra che sul tema si è tenuta a Parigi, AA.VV., La Vie mystérieuse des chefs-d’ouvre-La science au service de l’art, Paris, Editions de la Réunion des Musées nationaux 1980. Della stessa autrice si veda anche, A la découverte de la peinture par les méthodes physiques, Arts et métiers graphiques, Flammarion, Paris 1957 e Les secrets des chefs-d’oevre, Paris, Ed. R. Laffont 1964.
[5]Cfr. J. A. Chaptal, Sur quelques trouvées a Pompeia, in “Ann. Chim.”, 10, 1809, pp. 21-31
[6]Cfr. H. Davy, Some experiments on the colours used in painting by the ancients, in “Transaction of the American Philosophical Society”, 105, 1815, pp. 97-124
[7]Cfr. P. Bensi, Scienziati e restauratori nell’Italia dell’Ottocento, una difficile convivenza, , in Giovanni Secco Suardo. La cultura del restauro tra tutela e conservazione delle opere d’arte, atti del convegno internazionale di studi, Bergamo 9-11 marzo 1995, “Bollettino d’Arte” supplemento al n. 98, 1996, pp. 25-32
[8] Cfr. S. Augusti, cit., 1963, p.20.
[9]A. P. Laurie, The pigments and mediums of the Old Masters, London 1914, e dello stesso autore si citano qui, Un laboratoire pour l’examen des peintures. Appareils pour les rayons X, “Mouseion“, Paris, vol. 17-18, 1932 e The Tecnique of Great Painters, London 1949
[10]A. Martin de Wild, The scientific Examination of Paintings, London 1929.
[11]A. Eibner, L’examen microchimique de tableaux et décorations murales, in “Mouseion“,13-14,1931, pp. 70-92; si veda anche, dello stesso autore, L’examen microchimique des agglutinant,s ivi, 20, 1932, pp. 5-22 e cfr. anche, Zum gegenwartigen Stand des naturwissenschaftlichen Bilderuntersuchung, in “Angewandte Chemie“, 45, 1932, pp. 301-307 e L’Analyse Microchimique des Colours, in “Mouseion“, 29-30, 1935, pp. 113-126.
[12]Cfr. a proposito lo studio di A. Aldrovandi e M. Picollo, Metodi di documentazione e indagine non invasive sui dipinti, Padova, ed. Il prato 1999
[13]Cfr.il saggio di A. Eibner, Les rayons ultraviolets appliqués à l’examen des couleurs et des agglutinants, in “Mouseion“, 21-22, 1933, pp. 32-68. Si ricordano qui anche gli studi di H.Wolff e W. Toeldte, Zur Fluoreszenz– Analyse der Ollacke, in “Farbenzeitung“, 31, 1926, pp. 80-81 e, degli stessi autori, Ein Beitrag zur Kenntnis und Prufung der Harze, in “Farbenzeitung“, 31, 1926, pp. 2503-2505 e l’articolo, Leinol im Ultraviolettlicht der Analysenquarzlampe, in “Farbe und Lack“, 31, 1926, pp. 509-510
[14]R. De La Rie, Fluorescence of paint and varnish layers, in “Studies in Conservation“, 27, 1982, pp. 1-7, pp. 65-69 e pp. 102-108.
[15]Cfr. a proposito i seguenti articoli di H. Hetterich, Uber die Anwendung mikrochemischen Methodem bei pigmentuntersuchung von Gemalden, in “Mikrochemie“, Emich Festschrift, 1930, pp. 152-181; e Uber Mikrochemische Bilduntersuchung, in “Mikrochemie“, X, 1931, pp. 15-41
[16]Cfr. S. Augusti, cit., 1963 e, della stessa autrice, si ricordano i seguenti studi, Metodo sistematico per il riconoscimento microchimico dei colori minerali, in “Mikrochemie“, 17, 1935, pp. 1-10 e pp. 344-355 e I colori pompeiani, Roma, De Luca 1965.
[17]Cfr. R. J. Gettens e G. L. Stout, The stage microscope in the routine examination of paintings, in “Technical Studies in the Field of Fine Arts“, 4, 1936, pp. 207-233; e degli stessi autori si veda anche, Painting materials: a short encyclopedia, New York, Dover Publications 1966. si veda inoltre l’intervento di R. J. Gettens e E. M. Mrose, Calcium sulphate minerals in the ground of Italian paintings, in “Studies in Conservation“, 1, 4, 1954, pp. 174-189.
[18]Cfr., P. Coremans, Technishe inleiding tot de stude van de Vlaamse Primirieven, in “Gentse Bijdragen tot de Kunstgeschiedenis“, XII, 1950, pp. 116-117 e, ancora P. Coremans, R.J. Gettens e Thissen, La Technique des Primitifs flamans in “Studies in Conservation“,I, 1952, pp. 1-29.
[19]J. Plesters, Cross-Sections and Chemical Analysis of Paint Samples, in “Studies in Conservation“, 11, 1956, pp. 110-157.
[20]Cfr T. Pignatti, Prefazione al volume di L. Mucchi e A. Bertuzzi, Nella profondità dei dipinti, Milano, Electa 1983, p. 9.
[21]Cfr. L. Mucchi e U. Tolomei, Alla ricerca di Pietro Longhi, Milano, Achille Mauri Ed. 1970, p.10.
[22] Cfr. A. M. Dewild, Testing Pictures by the Roentgen Rays, in “Electrical Review“, 40 (607), 1014, London 1897
[23]Queste ultime citazioni sono tratte dallo studio di L. Mucchi e U. Tolomei, cit., 1970, p. 10
[24]Cfr. L. Mucchi e U. Tolomei, cit. 1970
[25]Cfr. A. Chéron, La radiographie des tableaux, “Académie des Sciences”, 13-12-1920, n. 172, pp. 57-59; Expertise radiographique des tableaux, Communication faite à la Société Francaise de Photographie, séance générale du 25 févr. 1921; Etude des tableaux par la radiographie, Communication faite à la Société de radiologie Médicale, Parigi 1921
[26]A. Burroughs, Art Criticism from a Laboratory, Boston, Little Brown and Co. 1938.
[27]Cfr. V. Mariani, I raggi X e la critica d’arte, in “Emporio”, 85, 508, 1937, pp. 187-196
[28]R. Mancia, L’esame scientifico delle opere d’arte ed il loro restauro, 3 Vol., Milano, Hoepli 1944-45.
[29]A. Morassi, Esame radiografico della “Tempesta” di Giorgione, in “Le arti”, a. 1, fasc. VI, agosto-settembre 1939, pp. 567-570 e poi nella monografia, Giorgione, Milano, Hoepli 1942.
[30]G. Bazin, Peintures de Corot, vraies ou fausses, in “Bulletin du laboratoire du Musée du Louvre”, giugno 1956, Parigi 1956, pp. 304-308.
[31]S. R. Jones, Notes on radiographs of five painting by Poussin, in “Burlington Magazine”, 1960, pp. 304-308.
[32]Cfr. C. Wolters, Die Bedeutung der Gemaldechlurchleuchtung mit Rontgenstrahblen fur Kunstgeschichte, M. Prestal Verlag, Frankfurt 1938 e lo studio Anmerkungen zu einigen Rontgenaufnahmen nach Gemalden des stadelschen Kunstinstitut, in “Stadel Jb”, 7-8, Frankfurt, 1932, pp. 228-240.
[33]M. Hours Miedan, La radiographie des tableaux de Léonard de Vinci, “Revue des Arts”, 4, Paris, Ed. des Museés nationaux 1952, si veda anche dello stesso autore lo studio, A la découverte de la peinture par les méthodes physiques, cit. 1957
[34]L. Mucchi – U. Tolomei, cit., 1970
[35]L.Mucchi e M. Precerutti Garberi, I leonardeschi ai raggi X, Milano 1972.
[36]L. Mucchi e M.Precerutti Garberi, Omaggio a Tiziano, Milano 1977.
[37]L. Mucchi, Caratteri radiografici della pittura di Giorgione, Firenze, Alinari 1978
[38]Si cita da T. Pignatti, Prefazione al vol. di L. Mucchi e A. Bertuzzi, cit., 1983, p. 10.
[39]Cfr. William. A. Real, Infrared reflectografy at the Cleveland Museum of Art: Paintings, Objects, Manuscripts, “AIC”, 1985.
[40]Cfr., AA.VV., M. Matteini e A. Moles, Il laboratorio scientifico nella ricerca e nella pratica operativa del restauro dei dipinti, in Problemi di restauro. Riflessioni e ricerche, Firenze, Edifir 1992, pp. 213-222
[41]Cfr. M. Faldi e C. Paolini, Tecniche fotografiche per la documentazione delle opere d’arte, Quaderni dell’Istituto per l’Arte e Restauro, n.1, Firenze 1987.