Il restauro dei dipinti costituisce l’insieme delle operazioni atte a prolungare la vita del manufatto e implica un intervento sulla materia. Per estensione con “restauro” si intende il risultato dell’intervento ed anche la parte sottoposta a restauro. Secondo la Carta della Conservazione e del Restauro degli oggetti d’arte e di cultura (1987), il termine identifica “qualsiasi intervento che, nel rispetto dei principi di conservazione e sulla base di previe indagini conoscitive di ogni tipo, sia rivolto a restituire all’oggetto , nei limiti del possibile, la relativa leggibilità e, ove occorra, l’uso”. Al di là di una precisa ma generica formula, il termine restauro dipinti si apre a molteplici definizioni , implicando non solo metodologie tecnico-scientifiche ma parametri critico-estetici, per i quali valga, a titolo esemplificativo, la nota definizione data da Cesare Brandi.: “Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua consistenza fisica e nella duplice polarità estetico-storica in vista della sua trasmissione al futuro”.
Nel restauro dipinti si è soliti riferirsi con espressioni – peraltro discusse e contestate in vari ambiti – a due principali fasi di intervento: restauro estetico e restauro conservativo.
Con “restauro estetico” ci si riferisce genericamente alle operazioni non direttamente tese a consolidare la parte materica dell’opera, come nel restauro conservativo, ma volte a restituire leggibilità all’opera, quali le operazioni di pulitura e di reintegrazione pittorica. Tali azioni sono caratterizzate dalla necessità di affiancare alle metodologie tecnico-scientifiche riflessioni e quindi scelte dipendenti da fattori di ordine critico-estetico, secondo un modo di procedere particolarmente caratteristico della scuola di restauro italiana.
Il “restauro conservativo” è invece l’intervento di restauro che si limita a consolidare l’esistente, escludendo operazioni di ricostruzione o di reintegrazione (come nel caso del restauro estetico). Nel restauro dipinti, ad esempio, vengono essenzialmente individuate con l’espressione le operazioni tese a consolidare il supporto, la preparazione e il colore, ovvero gli interventi finalizzati a migliorare le caratteristiche meccaniche del manufatto e a bloccare, per quanto è possibile, i processi di degradazione chimico-fisica e biologica in atto.
La falsificazione artistica non si identifica semplicemente con la frode commerciale, in realtà essa è, prima di tutto, un fatto culturale in quanto nasce sempre da un preciso contesto culturale
https://artenet.it/wp-content/uploads/2019/06/Mengs-1.jpg500500Manfredihttps://artenet.it/wp-content/uploads/2019/05/artenet340-1-300x138.pngManfredi2019-02-03 01:25:352019-06-30 10:25:51Falso, copia, imitazione, contraffazione e manomissione
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https://artenet.it/wp-content/uploads/2017/04/fermatura-1.jpg500500Manfredihttps://artenet.it/wp-content/uploads/2019/05/artenet340-1-300x138.pngManfredi2017-04-16 22:05:432020-04-27 06:40:43Consolidamento e fermatura del colore
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https://artenet.it/wp-content/uploads/2017/04/Tasselli.jpg500500Manfredihttps://artenet.it/wp-content/uploads/2019/05/artenet340-1-300x138.pngManfredi2017-04-16 22:00:522019-02-25 11:03:42Interventi al supporto ligneo
Gran parte dei danni che oggi si possono riscontrare sulle pitture antiche si devono all'uso diffuso nel Sette e Ottocento di alcali caustici (soda caustica, potassa caustica) o di altre sostanze...
https://artenet.it/wp-content/uploads/2017/04/rimozione-ridipinture.jpg500500Manfredihttps://artenet.it/wp-content/uploads/2019/05/artenet340-1-300x138.pngManfredi2017-04-15 19:10:492021-01-26 10:48:27Rimozione di ridipinture
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Lo stucco è una miscela costituita da un legante e una carica pulverulenta o granulare, generalmente colla animale e gesso (ma anche calce spenta, polvere di marmo, sabbia, etc.) disciolti in ...
Nel restauro dipinti, la rintelatura o foderatura, è l?operazione volta a consolidare la tela di un dipinto per mezzo dell?applicazione di una nuova tela su di essa, tramite materiali adesivi
https://artenet.it/wp-content/uploads/2017/03/rintelatura-1.jpg500500Manfredihttps://artenet.it/wp-content/uploads/2019/05/artenet340-1-300x138.pngManfredi2017-03-15 23:46:362019-02-25 11:26:18La rintelatura, i metodi
Per pulitura di un dipinto si intende: - la rimozione delle macchie superficiali - la rimozione dello sporco superficiale - la rimozione delle ridipinture - la rimozione, degli strati protettivi alterati ...
Importanza dell’esame del materiale pittorico e del percorso creativo nella valutazione di un’opera d’arte
Gli apporti che la trattatistica offre allo studio delle tecniche artistiche devono essere sempre confrontati e integrati con i dati ottenuti attraverso un’attenta analisi visiva tesa a valutare le modifiche che i materiali possono aver subito nel tempo sia a causa di alterazioni naturali sia per azione dell’uomo: molte errate valutazioni sono da imputare ad una scarsa considerazione di questo aspetto[1].
Non sono poche le tesi storiografiche che si sono basate, paradossalmente, su restauri sbagliati. Si tratta del giudizio attribuito da critici e storici dell’arte a opere fortemente ridipinte che pertanto non erano più capaci di esprimere il loro originario significato[2]. Come acutamente rileva Stefano Turchetti “il restauratore deve essere almeno un po’ storico dell’arte, come lo storico dell’arte deve essere un po’ restauratore nel senso che dovrebbe almeno riuscire a “vedere” un restauro, a saperlo leggere, dovrebbe insomma avere un occhio allenato a fare questo senza naturalmente dover agire sull’opera. E’ accaduto che lo storico dell’arte abbia fatto delle attribuzioni basando le proprie tesi sulle parti restaurate o ridipinte di un quadro.” In passato “si tendeva a intervenire su un dipinto per renderlo godibile” senza tener conto che “il dipinto va rispettato e non trasformato”. Si comprende pertanto l’importanza della ricerca documentaria sui passati restauri come è emersa dagli spogli archivistici e dalle relazioni sui restauri eseguiti negli ultimi tempi.
L’uso della liscivia calda
Gran parte dei danni che oggi si possono riscontrare sulle pitture sono infatti conseguenza di antiche operazioni di pulitura. Tra Cinquecento e Settecento non veniva fatta alcuna distinzione sul tipo di sporco da rimuovere e ogni ricetta poteva essere utilizzata indifferentemente sia su affreschi sia su dipinti su tavola.
Svelature causate da interventi con sostanze aggressive
Fin dalle prime prescrizioni scritte, risalenti al XVI secolo[3], veniva spesso raccomandato l’uso della liscivia calda, prodotta da “cenere forte” di rovere combinata con calce viva[4]. Aggiunte altre sostanze (come sapone, uova, sale o miele) questo miscuglio veniva applicato sui quadri con una spugna e rimosso con un’altra spugna imbevuta di acqua appena l’opera fosse apparsa pulita. Insieme allo sporco e alla vernice le sostanze, in realtà, aggredivano il legante disgregandolo in profondità e continuando ad agire per lungo tempo anche dopo l’apparente lavaggio. Così lo strato pittorico, privo dell’elemento di coesione, si polverizzava staccandosi.
Soda, potassa, pomate, urina e spirito di vino
Oltre all’uso dei solventi reattivi (come la soda caustica e la potassa caustica) o di altre sostanze corrosive basiche e acide, le tecniche e i materiali adottati per ottenere rapidi risultati erano estremamente vari. Sappiamo della pratica di stendere sul dipinto della colla forte da falegname calda, che fatta seccare veniva poi strappata via con tutto lo sporco[5], o dell’uso di “pomate” dalle fantasiose composizioni (non è raro trovarvi l’urina)[6] oppure, ancora, di varie sostanze abrasive. Sappiamo anche della pratica di bagnare la superficie pittorica con spirito di vino per poi incendiarla al fine di ammorbidirne gli strati da rimuovere[7]. L’azione meccanica di spugne e pennelli strofinati in superficie durante l’applicazione e la rimozione dei vari intrugli aveva un ruolo decisivo e, probabilmente, proprio quest’ultima provocava i danni maggiori[8]. La superficie dei dipinti che in antico sono stati così trattati si presenta oggi con abrasioni più o meno profonde, in modo particolare nei punti d’incrocio delle linee della craquelure, che conferiscono all’insieme un aspetto bucherellato (butteratura) e caratterizzato da vistosi fenomeni di svelatura.
Cotenna del lardo o anche cipolla
Fra questi errati metodi di pulitura ricordiamo anche la diffusa e dannosa pratica volta a rendere brillanti le superfici pittoriche: prima delle importanti festività religiose era, ad esempio, consuetudine strofinare i dipinti con la cotenna del lardo o anche pulirli con la cipolla[9] e bagnarli con olio di lino cotto, trattamenti che, pur offrendo nell’immediato risultati accattivanti, col tempo portavano al formarsi di spesse croste scure. Terminate, inoltre, le operazioni di pulitura, raramente ci si asteneva da qualche ridipintura che ravvivasse i colori e che aggiornasse l’opera al gusto o all’iconografia del momento; anzi, spesso l’intervento di “restauro” si identificava con la ridipintura delle parti sporche[10]. Il rispetto per l’opera d’arte sentita come testimonianza storica e culturale era in realtà ancora ben lontano dall’affermarsi: a questo possiamo attribuire, come Secco Suardo denunciò nell’Ottocento, il numero sterminato dei dipinti “barbaramente non solo spellati ma scorticati”[11], poi serenamente ridipinti[12].
Manomissioni
Oltre alla dissimulazione dell’usura provocata da una pulitura insistita, possiamo distinguere altre cause che possono aver portato ad un intervento di ridipintura.
Spesso vi era la necessità di intervenire su di un fenomeno d’invecchiamento naturale o su un’alterazione accidentale giudicati antiestetici (come strappi, lacerazioni, fessurazioni, ecc.).
Modifica totale della composizione
Si giungeva, in altri casi, alla modifica parziale o totale della composizione con fini estetici, storici, politici, religiosi o commerciali, con l’intento di venire incontro ai cambiamenti di gusto della committenza o alle esigenze di mercato.
Sono così giunte ai nostri giorni opere in buona parte manomesse che, più che documentare la cultura figurativa del secolo in cui sono state realizzate, testimoniano del gusto con cui si rileggeva l’opera antica nel particolare periodo in cui sono state ‘restaurate’.
Ridipinture e velature
La capacità di riconoscere le parti non originali viene generalmente riferita a più o meno vaste lacune e ampie ridipinture ma nel restauro moderno (solo apparentemente meno invasivo) l’attenzione va spostata ai casi in cui vengono apposte leggere velature reversibili e apparentemente innocue che possono ugualmente stravolgere l’espressione di un volto o il passaggio cromatico fra due campiture.
Questo tipo di ritocco è il più subdolo poiché spesso risulta indistinguibile ad occhio nudo ed ai normali rilievi fotografici.
Smembramenti, ridimensionamenti, trasporti
Oltre a queste alterazioni dell’originale aspetto della superficie pittorica devono essere presi in considerazione anche altri tipi di manomissioni operate in passato che possono aver portato ad una fuorviante lettura dell’opera: smembramento di polittici con sostituzione di cornici, riduzione delle dimensioni dell’opera (il più delle volte per adattarle a nuovi ambienti o per ottenere uniformità di misure in una collezione), sostituzione del supporto (numerosi dipinti su tavola sono stati, in passato, “trasportati” su tela), alterazioni della cromia originale per apposizione di vernici di tonalità giallo-bruna sulla superficie pittorica.
Maestri di arte e di scienza
Per ciò che riguarda invece le alterazioni naturali non dovute all’intervento dell’uomo, cioè le trasformazioni che subiscono i materiali dell’opera con il passare del tempo, dobbiamo tener presente che il grado di alterabilità di un dipinto è spesso correlabile al grado di conoscenza che il pittore aveva delle tecniche artistiche.
Si vuole pertanto dire che l’arte antica si fonda, riprendendo le parole di Matteini e Moles, “su un complesso di acquisizioni di tipo tecnologico la cui rilevanza, oggi, difficilmente siamo portati a riconoscere. I grandi maestri dell’arte pittorica, nel medioevo e nel rinascimento, erano in gran parte anche maestri di scienza secondo il significato – commisurato alle conoscenze dell’epoca – che oggi si attribuisce a questa parola. Non solo dunque i geni come Leonardo, il maestro dei maestri, coltivavano il sapere scientifico e sistematicamente lo applicavano nell’arte del dipingere, ma anche la maggioranza dei grandi pittori che oggi vengono riconosciuti come capiscuola difficilmente trascuravano di mettere in atto con rigore le acquisizioni allora note per realizzare un prodotto non solo valido sotto l’aspetto dell’espressione ma anche tecnologicamente costruito in modo da superare con successo la degradazione del tempo”[13].
La funzione primaria dello strato di vernice di finitura, per portare un esempio di quanto sopra affermato, è quella di proteggere la pittura dagli agenti esterni ma anche di modificare le caratteristiche ottiche della superficie pittorica, influenzandone l’aspetto finale. Qualsiasi alterazione dello strato di vernice si rifletterà, perciò, sia sull’estetica sia sullo stato di conservazione dell’opera e quindi anche sulla possibilità di un non corretto giudizio interpretativo.
Invecchiamento della vernice
Con l’invecchiamento del materiale si ha una perdita della flessibilità e della trasparenza: la pellicola di vernice diviene scura, dura e fragile e, conseguentemente, incapace di resistere alla penetrazione di particelle e agenti esterni.
Alterazione della vernice protettiva
I colori, in generale, perdono di profondità e di contrasto e il dipinto appare di una tonalità bruno-giallastra. Le minuscole fessurazioni del film di vernice, il graduale ingiallimento e la perdita di trasparenza sono dovuti sia a processi ossidativi e fotochimici sia a tensioni meccaniche.
Un’alterazione meno grave che non comporta, come nel caso precedente, l’esigenza di una parziale rimozione e sostituzione della vernice è il cosiddetto effetto bloom, che può essere spesso semplicemente trattato levigando la superficie con una pelle di camoscio. Il termine, inglese, definisce l’effetto di imbianchimento che può svilupparsi, in condizioni di elevati tassi di umidità relativa, su una superficie verniciata. Il fenomeno prende inizialmente l’aspetto di un alone bluastro a causa della dispersione del raggio luminoso sulle minuscole gocce d’acqua imprigionate nello strato per condensa. Fra le vernici quelle a base di resina mastice danno luogo facilmente a fenomeni di bloom, mentre si riscontra una minor predisposizione con l’utilizzazione della dammar.
La morte dei colori
Per quanto riguarda il precoce invecchiamento della superficie pittorica questo può essere causato dalla scelta di un legante instabile. Si deve ricordare a questo proposito il passo in cui De Mayerne descrive la perdita del colore causata dall’eccessivo scurimento dell’olio legante, che genera il formarsi di una patina marroncina plastificata[14] e quindi la conseguente alterazione della cromia originaria: “la morte dei colori si ha quando l’olio galleggiando in superficie si secca e forma una pelle che annerisce a contatto con l’aria”[15].
Come acutamente ha rilevato Alessandro Conti in molte sue pagine[16] il naturale invecchiamento di un olio ben confezionato genera invece una calda unità tonale gialla o bruna che, abbassando i chiari e schiarendo le campiture scure, può addolcire l’originaria crudezza cromatica di un’opera.
“Col passare del tempo il timbro del colore e l’effetto d’insieme di un dipinto è destinato a modificarsi”[17] e una testimonianza che non consente dubbi sulla effettiva fiducia che gli artisti ponevano nei confronti del tempo pittore ci è fornita da André Felibien des Avaux:
“Vi dirò che è per la stessa ragione di questa grande unione del colorito che i quadri eccellenti dipinti ad olio, ed eseguiti da gran tempo, si presentano con più forza e bellezza perché tutti i colori con cui sono stati dipinti hanno avuto più agio di unirsi, fondersi, mescolarsi gli uni con gli altri mano a mano che si è essiccato ciò che di più acquoso ed umido era presente nell’olio”[18].
La presenza di uno strato di vernice uniforme e in buono stato rallenta i processi di degrado a cui vanno normalmente soggetti i pigmenti presenti nello strato pittorico. Ogni singola particella di pigmento è poi avvolta nel legante, la cui natura e stato di conservazione parteciperanno ugualmente a rallentare l’azione della luce, dell’aria e degli agenti inquinanti. Questi, in concomitanza con l’umidità, tendono a modificare la proprietà e la composizione di ogni singolo pigmento. Le alterazione di colore sono infatti dovute a fenomeni chimici o fotochimici. Alcuni pigmenti, in particolare quelli che contengono sostanze organiche come la lacca di garanza o il giallo indiano, sono instabili alla luce; sotto l’effetto dei raggi violetti ed ultravioletti tendono quindi a impallidire. Altri pigmenti di origine inorganica, come il verdigris, tendono invece a divenire scuri.
Il contatto con l’aria e l’inquinamento possono comportare altri tipi di alterazione dei pigmenti. Possiamo, ad esempio, menzionare l’annerimento del bianco di piombo o del minio che, combinandosi con l’ossigeno sono soggetti a reazioni di ossidazione. Il fenomeno è rilevabile soprattutto sulle pitture murali, dove manca la protezione del legante e dove l’umidità esalta l’azione delle sostanze inquinanti poiché, oltre a portarle in soluzione, fa da veicolo attraverso il quale queste vengono a contatto con l’opera.
Un’ultima causa dell’alterazione cromatica dei pigmenti è legata alla reazione chimica (soprattutto l’ossidazione) innescata da altri materiali ai quali sono stati associati (un altro pigmento, il legante, la carica presente nel preparato, un prodotto aggiunto nel restauro, etc.). Il blu oltremare naturale, ad esempio, tende a divenire grigio al contatto con il bianco di piombo.
Alcuni pigmenti, poi, vengono attaccati dalla calce e quindi non possono essere impiegati nella tecnica dell’affresco. Altri, viceversa, si alterano rapidamente nelle tecniche ad olio: il blu di smalto, ad esempio, è stato accuratamente evitato nella pittura ad olio perché si decompone liberando cobalto solubile che provoca un’intensa ossidazione degli oli.
Vi è infine un ultimo caso di alterazione cromatica cui vanno soggetti molti dipinti ad olio che, se non correttamente interpretato, può condurre ad errori di valutazione stilistica ed è dato dall’utilizzazione di imprimiture e preparazioni colorate.
Dalla seconda metà del XVI secolo la preparazione su cui veniva applicato il colore inizia ad essere impastata con terre ed altri pigmenti opachi. Pur impedendo di sfruttare le massime luminosità ottenibili attraverso gli effetti di trasparenza dei colori sullo sfondo bianco, queste preparazioni offrivano dei notevoli vantaggi e, innanzitutto, fornivano come base un tono medio che permetteva all’artista di lavorare contemporaneamente sia nel registro dei chiari che in quello degli scuri: immediatamente, con poche pennellate, l’immagine veniva resa nelle tre dimensioni con effetti chiaroscurali particolarmente marcati, conformi al gusto dell’epoca.
Era però necessario dipingere con forti impasti di colore anche per evitare l’inconveniente della progressiva scomparsa delle mezze luci dovuto al trasparire del colore di fondo a causa dell’inevitabile aumento della trasparenza nel tempo degli strati di pittura ad olio.
Gli accentuati effetti di contrasto chiaroscurale che molte opere oggi mostrano non è perciò dovuto alla volontà dell’artista ma alla scomparsa progressiva dei mezzi toni che la sottostante preparazione scura ha “mangiato”.
Manfredi Faldi, La documentazione materiale come supporto e verifica dell’analisi storico-stilistica nelle opere pittoriche, Firenze 2003
[1]Cfr. M. Matteini, A. Moles, Il Laboratorio scientifico nella ricerca e nella prassi operativa del restauro dei dipinti, in Problemi di restauro. Riflessioni e ricerche, Firenze, EDIFIR 1992, p. 213
[2]Cfr. Veronica Briganti (a cura di), Intervista a S. Turchetti, BTA – Bollettino telematico dell’Arte, n. 9, 14 novembre 1994
[3]Si veda il Manoscritto Palatino 1001 della Biblioteca Nazionale di Firenze descritto in I Codici Palatini della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Roma, 1890-1940, II, pp. 476-7: “A far nette le figure in muro e in tavola che pareranno nuove. Recipe ceneri di rovere et tanta calcina et messedate ogni cosa insieme, poi fattene lissia caldata, poi pigliate del miel, sapon negro, et rosso di ovo, tanto di uno come dell’altro et fatte che ogni cosa sia insieme incorporata poi con questa lissia distemperata et con questa fregate ch’è cosa provata”. Questo ricettario si trova parzialmente riprodotto nello studio di A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Milano, Electa 1973, pp. 92-94
[4]Si veda Max Doerner, The Materials of the Artists and their uses in painting, New York, Harcourt, Brace and Company, 1949, p. 401, dove si parla anche dei bagni di olio di lino bollito e degli olii grassi della cucina che venivano usati per fare aderire i colori che erano stati indeboliti dall’uso della lisciva.
[6]Cfr. T. T. De Mayerne (1646), a cura di S. Rinaldi, cit., 1995, p. 163 e 250 (corrispondenti al f.56v e 145v del Ms. Sloane 2052).
[7]Cfr. quanto riportato da G. Secco Suardo ma si cita, qui e altrove, dalla ristampa anastatica Hoepli, Milano 1979, pp. 369-70: “il celebre prof. Giuseppe Guizzardi bolognese (…) poneva il suo quadro orizzontale, e con della creta vi formava tutt’attorno una specie di argine alto un dito, e costrutto in modo che non potesse scolarne un liquido. Vi versava allora dell’ottimo alcool, poi vi dava fuoco: e con un panno bagnato disteso fra le mani stava osservando l’effetto di quella fiamma: e quando, a suo avviso, era giunto il momento opportuno d’un subito vi stendeva sopra quel panno spegnendo immediatamente il fuoco.”
[8]Si confronti in particolare quanto descritto da Ulisse Forni, cit., 1866, p.127 e S. Suardo, 1866, ed. cons. Hoepli 1979, pp.364-5
[9]Si veda a proposito G. Secco Suardo,1866, ed. cons. 1979, p. 323
[11]G. Secco Suardo, cit., 1866, ed. cons. 1979, p. 42
[12]Si veda anche l’intervento di Silvia Bordini, Vernici e restauri nel Settecento: la Lettera sopra l’uso della vernice sulle pitture di Filippo Hackert, in “Problemi del restauro in Italia”, Atti del Convegno Nazionale, Roma, 1986, pp. 163-274.
[13]Cfr. M. Matteini, A. Moles, Tecniche della pittura antica: le preparazioni del supporto, in “Kermes”, II, n; 4, Firenze, Nardini 1989, p. 49
[14]Cfr. P. Carofano, Sulle ricette di pittura del trattato di Theodor Turquet De Mayerne, in “La Diana”, anno I, 1995, p. 164-5
[15]T. T. De Mayerne (1646), a cura di S. Rinaldi, cit., 1995, c.9v.
[16]Sul restauro, a cura di A. Conti, Torino, Einaudi 1988, si veda anche, dello stesso autore, Manuale di restauro, a cura di Maria Romiti Conti, Torino, Einaudi 1996
[17]C. Giannini, R. Roani, cit., 2000, p. 191 dove si legge anche che “l’espressione ‘tempo pittore’ è nata all’epoca del collezionismo barocco e non coincide con il gusto per la patina ma ne rappresenta un aspetto”.
[18]A. Felibien Des Avaux, Entretiens sur les vies et les ouvrages des plus excellens Peintres, anciens et modernes, vol. II, Paris, 1688, p. 240.
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