Supporto in legno di pioppo (i dipinti su tela, come la “Nascita di Venere”, sono ancora un’eccezione
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Colla animale
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Preparazione due differenti stesure di gesso e colla con aggiunta di olio, la prima più spessa e porosa, la seconda più compatta e di materiale maggiormente fine e ricco di legante
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Disegno a carboncino con il quale impostava la composizione e individuava le forme
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Imprimitura colorata a base di pigmento, uovo e olio la cui finalità era quella di creare una base colorata in funzione dell’effetto cromatico finale (nera al di sotto della vegetazione, giallo chiaro sotto i manti verdi, arancio sotto le vesti rosse, bianca sotto i carnati
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Disegno definitivo eseguito a pennello con colore nero diluito, sulla traccia lasciata dal disegno lineare a carboncino
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Strato pittorico di spessore vario, con pigmenti macinati talvolta grossolanamente e talvolta finemente, il legante utilizzato è una emulsione di uovo e olio (tempera grassa)
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Velature sottili pennellate di colore puro miscelato in olio e resina
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Contorni sottile linea scura, continua e uniforme ripassa i contorni, alcuni tocchi di bianco segnano le massime luci
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Vernice chiara d’uovo; dopo aver montato a neve gli albumi viene utilizzato il liquido che lentamente si deposita
Sandro Botticelli (Pseudonimo di Sandro Filipepi), Firenze 1445-1510 – Incoronazione della Vergine 1488-1490 – Tempera grassa su tavola, 378×258 cm – Galleria degli Uffizi, Firenze
Sandro Botticelli – La tecnica
Il passaggio dalla tempera a uovo alla tecnica ad olio fu, a differenza di quanto si è soliti pensare, particolarmente lento e graduale e significò ben più che una semplice e repentina sostituzione del legante. Buona parte delle opere eseguite tra la seconda metà del Quattrocento e il Cinquecento testimoniano delle ricerche compiute dai pittori per rendere più fluida e scorrevole la tempera, rallentare il processo di essiccamento e, in buona sostanza, rendere più manipolabile il colore. A questo fine, già nel Trecento, olio e resina naturale venivano aggiunti all’impasto, seppure per un numero limitato di colori o per le stesure finali a velatura. Fu comunque nella seconda metà del Quattrocento che questa pratica iniziò a divenire non più casuale ma programmatica, tanto da definire un insieme di regole proprie di una specifica tecnica, successivamente chiamata tempera grassa, in ragione della maggiore viscosità acquisita dal colore.
Le recenti analisi eseguite dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze su svariate opere di Sandro Botticelli ci permettono di individuare in questo artista uno dei grandi utilizzatori della tempera grassa e di ripercorrerne i procedimenti tecnici che, dopo un primo periodo di sperimentazione, sembrano mantenersi sostanzialmente inalterati nel corso della sua attività. Per molti aspetti il metodo seguito nella bottega del maestro è ancora quello indicato nel Libro dell’arte di Cennino Cennini: la tavola in pioppo (i dipinti su tela, come la “Nascita di Venere”, sono ancora una eccezione) riceve una preparazione con due differenti stesure di gesso e colla, la prima più spessa e porosa, la seconda più compatta e di materiale più fine e più ricco di legante. Le analisi chimiche hanno però individuato la presenza di olio già in questi strati: la preparazione acquista così un aspetto traslucido e perde gran parte del potere assorbente, in modo da facilitare la stesura del colore e delle velature. Già in questa prima fase la tecnica del Botticelli appare mirata all’ottenimento della massima brillantezza e luminosità. Sulla preparazione perfettamente levigata l’artista eseguiva un disegno a carboncino col quale, secondo le norme della tradizione, impostava la composizione ed individuava le forme.
Il disegno, una volta spazzato, serviva da limite per le figure e da traccia per le incisioni che individuavano le zone della doratura. Prima di ripassare i segni ad inchiostro, dopo la stesura del bolo e l’applicazione della foglia d’oro, il pittore eseguiva una imprimitura colorata a base di pigmento, uovo ed olio, l’utilità della quale non era soltanto quella di ridurre ulteriormente le capacità assorbenti della preparazione ma soprattutto quella di creare una base colorata in funzione dell’effetto cromatico finale.
Tenendo presente il risultato finale da ottenere l’artista stendeva così una imprimitura nera al di sotto della vegetazione, giallo chiara sotto i manti verdi, aranciata sotto le vesti rosse, infine bianca al di sotto dei carnati e delle vesti. Il sottofondo bianco permetteva effetti di luminosità non possibili laddove si manteneva il colore spento della preparazione traslucida, che peraltro doveva risultare, alla fine del processo di doratura, parzialmente “sporcato” di bolo e foglia d’oro.
Sulla traccia lasciata dal disegno lineare di contorno a carboncino, Botticelli eseguiva, a pennello, con colore nero diluito (inchiostro al carbone), il disegno definitivo. Sono state individuate tre diverse tipologie di segni: tratti molto sottili e precisi che delimitano gli incarnati, linee meno sottili per i contorni delle vesti e ampie pennellate per acquerellare le parti in ombra. Queste ultime risultano talvolta complete di ogni indicazione chiaroscurale, in altri casi solo accennate e piuttosto approssimative. Questa differenziazione è da attribuire ai differenti effetti cromatici che l’artista già sapeva di voler ottenere a dipinto finito. Per le zone da finire con un impasto sottile e trasparente si sfruttavano gli effetti di chiaroscuro sottostante. Dove invece erano previsti colori coprenti e a corpo l’acquarellatura era approssimativa. Infine nei carnati femminili, al fine di raggiungere effetti e di massima luminosità, il fondo veniva lasciato privo di acquerellatura.
Profondo conoscitore di tutte le tecniche del suo tempo, Botticelli era costantemente teso al raggiungimento dei massimi effetti di luminosità e saturazione cromatica: sceglieva i pigmenti più brillanti, non usava terre (a parte l’ocra) e faceva largo uso di lacche e altri colori resi artificialmente trasparenti (resinato di rame e blu oltremare naturale con quarzo), usava stesure sottili e uniformi macinando il colore finemente. Il legante utilizzato è una emulsione di uovo e olio ma, nelle velature finali, all’uovo si sostituisce la resina naturale. I colori vengono applicati puri senza mai miscelarli e le trasparenze che ne derivano creano infinite variazioni tonali pur mantenendo la massima saturazione. Per i panneggi si utilizzano al meglio le proprietà coprenti e trasparenti dei vari pigmenti: la veste rossa, ad esempio, è ottenuta con velature di lacca di garanza su un disegno accuratamente chiaroscurato.
La veste azzurra della Vergine è ottenuta con leggere stesure di blu oltremare naturale trasparente, sfruttando per le luci il bianco dell’imprimitura e ottenendo le ombre con aggiunta di velature di lacca. Osserviamo come, pur mantenendo limitato il numero dei pigmenti, il pittore riesca ad ottenere un’ampia gamma di toni. Anche se più raramente, esegue panneggi con colore a corpo e impasti anche molto corposi (vedi impasto, impasto a corpo), comunque li completa sempre con velature trasparenti.
Lo spessore dello strato pittorico nei dipinti è piuttosto vario. La vegetazione mostra ad esempio una discreta corposità dovuta anche a una granulazione grossolana del pigmento, a differenza dei carnati per i quali i pigmenti sono macinati molto finemente e lo spessore risulta generalmente piuttosto sottile. Sull’imprimitura bianca la pittura veniva stesa con sottili pennellate di colore puro in stesure successive senza attendere la completa essiccazione dello strato precedente, metodo pittorico estremamente difficile ma che permette di ottenere la perfetta fusione degli strati mantenendo la massima luminosità. Per quanto riguarda i volti il disegno veniva acquarellato soltanto per i carnati maschili, per i quali il pittore ricercava effetti di maggiore espressività. Per i carnati dei giovani e delle donne, ancora una volta alla ricerca della luce, si rinunciava al chiaroscuro di base per sfruttare al massimo gli effetti di trasparenza sulla preparazione bianca.
Sugli incarnati venivano poi eseguite delle velature di lacca rossa. Le velature finali, più sottili e trasparenti, erano spesso arricchite con una piccola quantità di resina naturale. I tratti del volto venivano infine ripassati con una sottile linea scura, continua ed uniforme. Sul manto della Vergine alcuni tocchi di bianco di piombo puro segnano le massime luci. Chiude la fase pittorica dell’opera il velo, dipinto con solo bianco di piombo più o meno diluito a seconda del grado di trasparenza richiesto.
Ulteriori arricchimenti venivano poi dati dagli interventi di doratura a missione e di doratura a conchiglia. Ambedue le tecniche, già descritte da Cennino Cennini insieme alla più tradizionale doratura a guazzo, appaiono tutt’altro che abbandonate: nonostante la scarsa considerazione dimostrata da alcuni umanisti nei confronti della doratura è in realtà proprio in questo periodo che quest’arte raggiunge uno dei suoi momenti più alti, nella ricerca di una varietà di effetti sconosciuta nei secoli precedenti.
Manfredi Faldi – Claudio Paolini Dipinto realizzato da Francesca Berni
Estratto da: Artis (Art and Restoration Techniques Interactive Studio), Direzione scientifica: Manfredi Faldi, Claudio Paolini. Cd Rom realizzato da un gruppo di istituti di restauro europei, con il determinante contributo della Commissione Europea nell’ambito del programma d’azione INFO2000.
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